Case di ringhiera nella metropoli digitale

Ringhiera
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Nell’infanzia dell’urbanistica digitale stiamo sperimentando ciò che era la convivenza nelle case di ringhiera, quelle che prevedevano spazi comuni in alcuni condomini delle grandi città. Molte delle attività si svolgevano in pubblico intorno al fulcro del caseggiato, il cortile, sotto gli occhi di tutti. La vita si consumava lì: dove ogni fatto entrava subito in risonanza in quelle bolle di convivenza così frequentate; dove la cooperazione, in qualche forma, tra alti e bassi, era predominante. Gli abitanti del vicinato non si scelgono, si convive con quelli che capitano. La sorveglianza era reciproca, l’invadenza pure, ma erano rari gli atti vandalici. 

Poi l’esigenza della privacy dall’attenzione del vicino guadagnò terreno, scomparvero progressivamente le attività comuni, gli spazi pubblici furono chiusi con muri che danno (un senso di) sicurezza. Tutto ciò impose all’architettura nuove regole per la progettazione urbana. In sintesi abbiamo guadagnato in termini di privacy però al costo della sicurezza conferita dal “controllo sociale”, ossia dall’agire umano, che abbiamo rimpiazzato con chiavistelli e lucchetti. Confidare più sugli oggetti che sulle persone la dice lunga sul grado di fiducia nei riguardi della comunità cui apparteniamo.  

In rete accade il contrario: capita di incontrare persone che poi scegliamo come appartenenti alla più intima sfera sociale; quasi tutti hanno le porte aperte, gli abitanti delle case di ringhiera digitale non avvertono ancora un pericolo imminente. Così come i negozianti fisici sono i fautori della tranquillità e della sicurezza nelle strade, poiché detestano i deturpatori e gli spacca vetrine, anche chi vuole fare affari in rete con il suo modo di agire promuove naturalmente l’ordine e l’attrazione. Le persone si connettono se hanno qualcosa in comune, o almeno lo intravedono nel futuro. Proprio questo comportamento genera un aumento della forza centripeta attorno al luogo d’interesse. 

Anche in rete quindi le persone si aggregano dove c’è più gente, secondo le stesse mode che interessano i locali pubblici:

-      “C’è un nuovo posto, ma non pare che abbia preso” (cfr Google+)

-      “Non ci va più nessuno, quindi lo abbandoniamo pure noi” (cfr Friendfeed)

-      “Vanno tutti lì, di certo li incontreremo” (cfr Facebook)

(È la natura della rete, così brillantemente esposta nel libro “Link” di A. L. Barabási, che s’intreccia con il successo o il fallimento dei siti pubblici, secondo Jane Jacobs, la grande antropologa e urbanista americana.)

E così dal sito semisconosciuto nasce la metropoli digitale. Da questa è nato il “baratto digitale”: ci scambiamo informazioni, favori e simboli. Sempre online. Disaggregato il vicinato, stiamo trovando una nuova forma di convivenza con chi è fisicamente lontano. L’interazione tra i soggetti prima era fisica, immediata e frequente. Ora è mediata, sempre 24 su 24 oppure nulla; proprio come la natura digitale. Ciò ha enormi impatti sulla convivenza civile, la cui garanzia è data più dalle persone che si frequentano che dalle regole e dagli strumenti che il sito impone. 

Il mondo digitale non è peggiore del mondo fisico, anzi. I soggetti sono gli stessi, lo strumento di comunicazione è cambiato, ma i luoghi in comune possono crearsi dappertutto, ed è lì che si accentua l’intensità della vita umana. Il successo si raggiunge quando l’espressione è reciproca. Le comunità migliori, sia fisiche sia digitali, non sono quelle con più controllori ma quelle che hanno un controllo sociale più energico, cioè il sanzionamento dei comportamenti devianti per merito della maggioranza degli utenti che si fa sentire. È un’opera attiva e spontanea, che agisce preventivamente, magari solo isolando i comportamenti devianti.  

Facciamo un esempio al contrario. Proprio dove l’illegalità è la regola, come nei siti di download di materiale piratato, lì è il luogo in cui è più probabile contrarre virus e minacce alla sicurezza del computer e quindi all’identità della persona. In caso di aggressione non ci si può aspettare di essere spalleggiati e difesi dagli altri. La spiegazione risiede sul fatto che non è affatto contemplato il controllo sociale. Anzi, l’obiettivo è solo portare (scaricare) a casa il proprio interesse.  

Oggi siamo arrivati al paradosso di sacrificare la socievolezza dei posti comuni senza guadagnare neanche in sicurezza. In altre parole, tra una partecipazione eccessiva (l’invadenza suddetta) e un completo isolamento rischiamo di ibridarci e di prendere il peggio dei due mondi: troppi nella nostra bolla, il vuoto pneumatico al di fuori. Il balcone, il cortile e tutti gli spazi condivisi fungevano da canale di comunicazione bidirezionale, annullando le differenze di status sociale; oggi la rete ci offre le identiche possibilità. Il vicinato digitale rappresenta un’astrazione della realtà; non è un’entità virtuale.

 

Twitter: @massimochi