La prossima tassa? Chiediamola a Google

Thomas Jefferson:
“Chi riceve un'idea da me,

ricava conoscenza senza diminuire la mia;

come chi accende la sua candela con la mia

riceve luce senza lasciarmi al buio”.

 

La migliore tassa è quella
che non distorce le decisioni di acquisto delle persone, ma il peggio accade
quando con le tasse si ostacola il diritto all’informazione. Grazie a Guido
Scorza
sappiamo che in Germania c’è una proposta di legge chiamata in rete “Google
Tax” per contrastare la diffusione online delle notizie.

Mentre un bene
fisico più si usa e più si consuma e deteriora, per l’informazione è il
contrario, cioè se la utilizziamo aumenta con il tempo, come per esempio il
valore che diamo a un brand o la reputazione su una persona. 
La questione ruota
tutta intorno alla proprietà dell’informazione, essa è un bene pubblico o
privato?

I beni in economia
sono privati o pubblici. I beni privati, come una mela, solitamente sono
rivali, nel senso che se la possiede qualcuno, l’altro non ne avrà il possesso.
I beni pubblici invece sono usati da più di una persona alla volta (non rivali) e
limitarne l’accesso (escludibilità) spesso non è possibile (come si evidenzia
dal classico esempio del faro o della difesa militare).

L’informazione è
un bene di natura atipica: una volta affrontato il costo per produrla,
diffonderla non costa nulla con i media digitali, quindi non è rivale, ma è il
contrario; insomma più si diffonde più acquista valore. L’avvento del digitale ha separato l’informazione dal supporto fisico che la veicolava (ad esempio, giornale, libro o disco) ed è diventata non escludibile. Inoltre, per completare la
descrizione delle molteplici prospettive dell’informazione, dobbiamo dire che è
anche un “bene esperienza”, nel senso che il valore è determinato dopo
 il consumo del contenuto.

Un tempo il possesso dell'oggetto contenente l'informazione escludeva l'accesso ad altri, si comportava cioè come un bene privato. Adesso
che si è liberata dal supporto fisico, mostra la sua vera natura di bene
pubblico.

Per remunerare gli
autori abbiamo inventato il copyright, che è una misura (utile?) per
neutralizzare gli effetti della diffusione che non riconosce il valore agli
autori di beni non rivali. 
Si cerca cioè di
rendere artificiosamente scarsi i beni digitali imponendo il DRM e altri
meccanismi, poiché solo se c’è scarsità c’è un mercato e, se c’è un mercato, c’è
la possibilità di remunerare gli autori. I reali promotori di questa tassa sono gli editori, che con questa mossa dimostrano tutta la loro debolezza.

Parafrasando Thomas
Jefferson, tassare lo scambio dell’informazione significa lasciare qualcuno in
penombra.


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La tabella riporta
nella colonna “Informazione” dove siamo e dove vogliamo andare. Nella colonna “Comunicazione”
invece c’è il passato, dove con questa tassa si vuol tornare.

Twitter: @massimochi