ricava conoscenza senza diminuire la mia;
come chi accende la sua candela con la mia
riceve luce senza lasciarmi al buio”.
La migliore tassa è quella
che non distorce le decisioni di acquisto delle persone, ma il peggio accade
quando con le tasse si ostacola il diritto all’informazione. Grazie a Guido
Scorza sappiamo che in Germania c’è una proposta di legge chiamata in rete “Google
Tax” per contrastare la diffusione online delle notizie.
Mentre un bene
fisico più si usa e più si consuma e deteriora, per l’informazione è il
contrario, cioè se la utilizziamo aumenta con il tempo, come per esempio il
valore che diamo a un brand o la reputazione su una persona. La questione ruota
tutta intorno alla proprietà dell’informazione, essa è un bene pubblico o
privato?
I beni in economia
sono privati o pubblici. I beni privati, come una mela, solitamente sono
rivali, nel senso che se la possiede qualcuno, l’altro non ne avrà il possesso.
I beni pubblici invece sono usati da più di una persona alla volta (non rivali) e
limitarne l’accesso (escludibilità) spesso non è possibile (come si evidenzia
dal classico esempio del faro o della difesa militare).
L’informazione è
un bene di natura atipica: una volta affrontato il costo per produrla,
diffonderla non costa nulla con i media digitali, quindi non è rivale, ma è il
contrario; insomma più si diffonde più acquista valore. L’avvento del digitale ha separato l’informazione dal supporto fisico che la veicolava (ad esempio, giornale, libro o disco) ed è diventata non escludibile. Inoltre, per completare la
descrizione delle molteplici prospettive dell’informazione, dobbiamo dire che è
anche un “bene esperienza”, nel senso che il valore è determinato dopo il consumo del contenuto.
Un tempo il possesso dell'oggetto contenente l'informazione escludeva l'accesso ad altri, si comportava cioè come un bene privato. Adesso
che si è liberata dal supporto fisico, mostra la sua vera natura di bene
pubblico.
Per remunerare gli
autori abbiamo inventato il copyright, che è una misura (utile?) per
neutralizzare gli effetti della diffusione che non riconosce il valore agli
autori di beni non rivali. Si cerca cioè di
rendere artificiosamente scarsi i beni digitali imponendo il DRM e altri
meccanismi, poiché solo se c’è scarsità c’è un mercato e, se c’è un mercato, c’è
la possibilità di remunerare gli autori. I reali promotori di questa tassa sono gli editori, che con questa mossa dimostrano tutta la loro debolezza.
Parafrasando Thomas
Jefferson, tassare lo scambio dell’informazione significa lasciare qualcuno in
penombra.
La tabella riporta
nella colonna “Informazione” dove siamo e dove vogliamo andare. Nella colonna “Comunicazione”
invece c’è il passato, dove con questa tassa si vuol tornare.
Twitter: @massimochi