Il faro dell’INPS che segnala l’entrata in porto alla fine di un lungo periodo di lavoro si è quasi perso all’orizzonte.
Nel frattempo i naviganti sono terrorizzati: il momento inerziale è finito, sono alla deriva e temono che le prossime ondate possano scaraventarli fuori dalla nave.
Sono da anni lupi di mare, ma non hanno mai toccato l’acqua.
Non sanno cosa fare una volta licenziati, perché non sono flessibili, sono rimasti fermi dal punto di vista formativo e professionale. Non hanno visto nulla negli ultimi venti anni fuori dalla loro azienda, erano nella confort zone, e si sentivano bene. Percepivano la protezione della struttura e potevano vivere solo con essa, oggi che viene a mancare non riescono a navigare nel mare digitale dove si è prima di tutto individui, poi, forse, impresa.
Non sanno come è cambiato il mondo al di fuori e –soprattutto- non sono conosciuti dal mondo, e ne hanno terrore.
Quei pochissimi giovani che riescono a entrare nelle aziende, visto il clima di tagli e mancanza di prospettive, se hanno talento, non vedono l’ora di andarsene. Non tutte le aziende sono in queste condizioni, ma la grandissima maggioranza non sono attraenti, soprattutto quando affidano ai giovani strumenti e lavori dell’età della pietra. A stipendio indegno.
Con migliaia di lavoratori spaventati (o che sperano ancora nella prossima magia italica) e con giovani che espatriano, da che parte vanno le aziende? È un processo che toccherà anche i dipendenti pubblici a breve, e allora dove andrà questo Paese?
Da nessuna parte.
A meno che non partiamo da noi, poiché come dice bene gallizio: “ogni singola scelta cambia l’intero sistema”.
Per passare alle misure concrete, ognuno deve iniziare un percorso fatto da:
competenze, su qualsiasi tema, magari più di una.
I baby boomers sanno molto cose che però non servono più.
Non vengono licenziate le persone, neanche le competenze obsolete, ma prima di tutto è emarginato chi non ha attitudine a cambiare.
Esempio: non basta più saper fotografare, ma bisogna far parte di un ecosistema di professionisti che si aggiornano su nuovi materiali, sui filtri digitali di Instagram; saper gestire i metadati è necessario.
E con una piccola provocazione si può dire che formarsi oggi è molto facile e poco costoso, per tutti, a patto di voler studiare davvero per molti anni.
Lo stesso dicasi per altre passioni che possono trasformarsi in un futuro lavoro, come la cucina, i viaggi, etc.
Ma ancora non basta.
Chi ha una lunga specializzazione (e un po’ di introversione) ritiene che il prodotto del suo lavoro abbia già una logica comprensibile a tutti, un linguaggio che ne spiega da solo la qualità dell’opera.
È un errore capitale.
Serve aggiungere uno strato di comunicazione bidirezionale, scritta e orale, online e offline, su ogni tipo di lavoro. È imprescindibile saper condividere quello che si fa. Non c’è più da nascondere beni materiali, ma al contrario diffondere le informazioni che si conoscono.
Una buona comunicazione separa le persone preparate (ma disoccupate) dai professionisti di successo.
Competenza e comunicazione sono delle condizioni necessarie, poi servono le relazioni. Che si realizzano –automaticamente- se si sono fatti bene i due passi precedenti.
In questo senso il capitalismo non cambia: continua a riconoscere sempre chi sa fare cose rare e che hanno un valore sul mercato; anche senza appartenere a un’impresa.
Twitter: @massimochi