Mentre molti s’interrogano su cosa succederà al mondo della tecnologia senza le grandiose idee di Steve Jobs, perché non chiederci qual è il percorso che queste compiono, una volta trasformate in oggetti?
Cannoni pubblicitari sparano idee a più non posso, molte ci colpiscono e restano dentro. Nessuno considera il consumatore medio uno stolto, ma decenni di bombardamento hanno prodotto nelle nostre teste tanti crateri e pensiamo di colmarli solo con gli ultimi gadget disponibili. Alcuni tra questi, anche quelli costosi, meritano di terminare la loro funzione appena si presenta un banale difetto: la batteria che si scarica troppo presto. Questo effetto è normale perché i produttori programmano l’obsolescenza degli oggetti.
Ma non possiamo cavarcela solo con il caso delle batterie: il problema dei rifiuti è molto più complesso. E tutte le questioni complesse, per iniziare l’analisi, vanno esemplificate.
Scomponiamo quindi il problema tra input, gestione e output.
In questa prospettiva la gestione è il processo di raccolta ed eventuale riciclo. L’output è la destinazione finale, il sito di stoccaggio.
Qui vogliamo porre l’attenzione su di noi –l’input per l’appunto- che alimentiamo a dismisura il sistema. Se consideriamo i beni durevoli (con quelli alimentari, e si tocchi il cuore chi si sente colpevole per quanto cibo intatto viene sprecato) possiamo fare delle considerazioni economiche.
Il capitalismo si basa su: acquistare, consumare e gettare.
Non è finita, conta molto la velocità del ciclo. Sembra un paradosso, ma la semplice velocità non è sufficiente: essa deve essere eccessiva per produrre lo spreco.
Ne consegue che la tanto pubblicizzata frase “Il nostro obiettivo è la soddisfazione del cliente” è in realtà una menzogna. Il cliente è appagato nel momento dell’acquisto, ma “deve” essere insoddisfatto un istante dopo, perché sarà tentato dal nuovo modello, quello più cool. Se fosse davvero soddisfatto non comprerebbe più nel breve periodo e sarebbe una sciagura per il produttore. Sempre nuovi desideri, accesi dalla pubblicità, devono far presa nella testa dei consumatori perché oggi non si può più resistere alla tentazione di appagarli immediatamente.
C’è un aspetto ancora più subdolo. Dato che nella società dei consumi “avere” significa “essere”, la proprietà dei beni ci conferisce uno status, ci fa sentire qualcuno.
L’arte di creare oggetti dal design meraviglioso è di Steve Jobs, ma l’arte di correre troppo velocemente dalla fabbrica al negozio e infine al cassonetto è tutta nostra.